Intervista a Claudio Chiaverotti sul suo secondo cortometraggio “Muse comes home”

 Intervista a Claudio Chiaverotti sul suo secondo cortometraggio “Muse comes home”

TF: Muse come home è la tua seconda esperienza dietro la macchina da presa: quando è nata questa passione per la regia cinematografica?

CC: E’ una passione che ho da sempre. Il problema è che abitando a Torino ero troppo lontano dai contesti territoriali in cui si muoveva allora la cinematografia che contava. Quando avevo circa vent’anni avevo acquistato una cosa che si chiamava l’annuario del cinema, dove c’erano gli indirizzi di tutti i registi, alcuni produttori e case di produzione e gli agenti degli attori, ma a me interessavano, in particolare, i registi italiani e ho fatto le prime telefonate. Capivano che ero un ragazzo di diciotto anni. Devo dire che molti sono stati gentili, magari facendo qualche battuta, in particolare Maurizio Ponzi che era il regista dei primi film di Francesco Nuti, persona di una cultura e di una gentilezza particolari, con il quale si era parlato di un soggetto. Quando tu inizi a intravedere qualcosa, magari può essere, quantomeno, interessante, poi però non si è realizzato nulla, ma mi aveva dato due dritte importanti. Un altro era stato il grande Anthony M. Dawson, cioè Antonio Margheriti, che ha fatto una cinquantina di film action, fantascienza, di tutto, un pioniere del cinema italiano. Questo signore, di nuovo, aveva capito che ero un ragazzino, ma anche lui mi aveva dato alcune dritte, mi aveva spiegato un po’ di cose, ed era venuto fuori un soggetto. Facendo questo giro di telefonate ai registi capii che volevo fare questo. Poi quel soggetto è stato il primo che io ho scritto per la Sergio Bonelli Editore, ma il primo albo a uscire è stato Il Buio di Dylan Dog, anche se, in realtà, il vero primo soggetto che avevo scritto per la Sergio Bonelli era una storia di Martin Mystere che si chiamava “Il Cuore di Cristopher“.

TF: Essendo un grande sceneggiatore di fumetti, come ti sei trovato a lavorare seguendo una sceneggiatura non tua?

CC: Non sono un grande sceneggiatore di fumetti, sono un racconta storie. Seguire una sceneggiatura non tua è un’altra cosa. La prima volta ho scritto  la storia del vampiro, protagonista del mio primo cortometraggio “I Vampiri sognano le fate d’inverno?”  che poi ho diretto e che illustrava la mia concezione un po’ del dell’horror, che per me è  quello che segue l’etimologia del termine: deve contenere elementi sovrannaturali. Ho cercato di raccontare la vicenda di un vampiro da un altro punto di vista, un vampiro ossessionato dalla perdita di identità. Fa il fotografo proprio per contrasto, ma ancora più evidente è quando vampirizza una donna, che per me è un atto erotico, però prima di farlo scatta una fotografia perché lui dice: sarà l’ultima immagine che resterà di te. E’ triste morire senza volto, cioè senza il ricordo di un volto, come del resto muore lui.

TF: Pensi che sia più impegnativo scrivere una sceneggiatura o dirigere un cortometraggio?

CC: Allora, è una cosa diversa: una sceneggiatura è lavoro, è una cosa per cui metti anima e corpo, ok anche per realizzare un corto ci metti passione e impegno, però sono proprio cose differenti. La sceneggiatura te la fai a casa e hai tanto tempo per cambiare finché non la spedisci. Io ci metto in genere un mese, mentre invece il cortometraggio è qualcosa che si prepara magari in tre o quattro mesi; questa volta ne abbiamo impiegati anche di più, e poi ti bruci tutto in tre giorni perché non ti capita di avere  una settimana a disposizione, che sarebbe l’ideale per girare, e quindi è proprio un modo diverso di mettere in scena una storia, ma sono tutte e due cose fighissime, e io poi adesso, vabbè, sulla regia ci crollo proprio perché mi piace tantissimo.

TF: Quanto tempo avete impiegato per completare le riprese?

CC: Beh, come ti ho già detto, tre giorni, più meno lo stesso tempo che abbiamo impiegato a girare il cortometraggio sul vampiro.

TF: C’è stato un momento difficile durante la lavorazione del corto?

CC: Allora, se fai una cosa che ti piace speri che il momento difficile non ci sia mai, però ci sono dei momenti in cui boh, non so, c’è poca batteria in macchina, quindi bisogna andare più veloce, quello, certo, può succedere. C’è stato un momento difficile ma non è dipeso da me, quando a un certo punto il drone è precipitato, ma penso che sia stato più difficile per il proprietario del drone, meno male che era assicurato…

TF: In che modo è stato coinvolto nel progetto Carlo Lucarelli?

CC: Carlo Lucarelli è stato coinvolto nel progetto grazie a Stefano Fantelli che lo conosceva perché lavora con lui. Lucarelli è stato gentile fin dall’inizio ad aderire a questo progetto, ed è stato disponibilissimo. Siamo andati da lui, a casa sua, al suo paese e praticamente lui ha registrato la voce; questa è stata un’idea di Stefano e secondo me è una cosa figa, cioè che la storia inizia e finisce con la voce fuori campo di Carlo Lucarelli, come se fosse una trasmissione condotta da lui che ti racconta l’invasione degli infetti, e quindi ti dà un realismo stranissimo, e poi c’è lo stesso Carlo Lucarelli insieme alle figlie, che hanno fatto una particina. Il film è aperto proprio da Carlo Lucarelli che arriva in questa cittadina sperduta e chiede un’informazione a uno che sembra già mezzo andato che a Stefano Fantelli, che insomma ha fatto anche lui una comparsata. Io invece sto sempre dietro.

TF: Riguardo alla morale di fondo del cortometraggio: pensi che il mondo sia ormai costretto ad essere dominato dai vivi morenti, o c’è ancora speranza per l’umanità?

CC: Sulla morale di fondo, non lo so sai: ognuno poi credo che troverà la sua, forse. “Il mondo è dominato dai vivi morenti, c’è ancora speranza per l’umanità?” Non so darti una risposta precisa… dipende da che momento mi prendi della giornata.

TF: Nella tua carriera di sceneggiatore hai affrontato praticamente tutti i temi legati alla narrazione fantastica e ovviamente horror. Il tuo primo corto era legato al tema dei vampiri, qui tengono banco gli zombie o, per meglio dire, degli infetti malati di rabbia. Qual è il genere di storie che ti piace di più scrivere? Magari da trasporre in un futuro lungometraggio?

CC: Ho sempre in mente di girare un thriller, come dico sempre io: ho i piedi per terra e i castelli per aria. I piedi cerco sempre di tenerli ben saldi per terra perché, per carità, dipende sempre quanto ci metti a girare un film, che non è quasi mai a buon prezzo, però diciamo che l’horror se lo vuoi far bene costa davvero molto per diversi aspetti: il trucco, gli effetti speciali e altro. Col thriller ci può stare altrettanto, ok, per esempio può essere costosa la scelta dell’ambientazione, però insomma è meno impegnativo da questo punto di vista, e poi sono abbastanza preso coi thriller dal Silenzio degli innocenti in avanti, anche di contemporanei, voglio dire, ne ho visti pochi ma interessanti negli ultimi tempi.

TF: Rimanendo sempre su quest’argomento: faresti una trasposizione cinematografica di una delle storie scritte per i tuoi personaggi a fumetti?

CC: Allora io farei una trasposizione cinematografica di tutte le mie storie, pensa che io mi sono sempre immaginato le storie a fumetti come degli storyboard di un film e io sono fissato col cinema, poi parlo a uno che ha fatto la tesi su David Lynch, sul grandissimo David Lynch, e poi vabbè a me ne piacciono diecimila, Carpenter, Tarantino, che adoro, e tanti altri, per cui io farei dei film in particolare sui miei due personaggi, Brendon e Morgan Lost, mi piacerebbe molto, e secondo me si presterebbero bene. Staremo a vedere cosa ci riserva il futuro.

TF: In futuro di Claudio Chiaverotti leggeremo più fumetti o vedremo più film?

CC: Ma, in futuro di Claudio Chiaverotti ovviamente leggeremo più fumetti perché a fare un fumetto ci metti un mese, con progetti cinematografici i tempi si allungano parecchio, e poi sono progetti legati a un tot di cose varie da considerare, a una serie di “collisioni stellari” e via di seguito, però mi piacerebbe riuscire a fare ancora qualcosa di cinema, speriamo.